Wednesday, March 08, 2006

ANDERSEN Hans Christian - Recensione di Ettore Mosciàno






















“Il favoloso Hans Christian Andersen” di Ettore Mosciano.________________

Il quattro agosto 1875, all’età di settant’anni, moriva serenamente a Rolighed, in una villa nei dintorni di Copenaghen, il poeta e disegnatore H.C. Andersen.
Per commemorarne il centenario della scomparsa, un’ampia mostra antologica è stata realizzata in uno dei saloni della Biblioteca Nazionale di Roma con la collaborazione dell’assessorato alle Antichità e Belle Arti e dell’Ambasciata di Danimarca. Una cura particolare è stata riservata alla presentazione delle opere grafiche che costituiscono un patrimonio poetico-fantastico del mondo anderseniano pochissimo conosciuto in Italia.
Un richiamo, quindi, per tutti coloro che, nei ricordi d’infanzia, volessero ancora assaporare l’arte della purezza e della poesia; ma soprattutto un invito ai bambini perché possano ancora una volta trovare l’occasione per immergersi, attraverso la lettura e la ideazione fantastica, in quei mondi dove il senso di giustizia e di aperta verità, quell’intimo senso di pietà, quella bonaria ed inesauribile ironia, svelano ancora il lato comico della vita e le sue contraddizioni.
“Io non ho scritto per i bambini soltanto…- diceva l’Andersen - …ma anche per quel ‘fanciullino’ che vive ancora, grazie a Dio, nell’anima di tutti”.

Quanti ancora tra i genitori ed educatori sociali tengono a mente questo precetto?

In un’epoca in cui siamo tutti più soggetti alla problematica di un divenire, tanto più necessaria arriva la fantasia a colmare i vuoti e gli smarrimenti mentali. Il timore che le favole possano ingannare il bambino, popolandone la mente di elfi e di fate, è un luogo comune della filosofia materialistica. Anatole France mette in fuga questa apprensione ricordandoci che: “Egli (il bambino) sa benissimo che la vita non ha di tali gentili apparizioni. Nella nostra società, ahimé, fintroppo è la gente positiva che teme i danni dell’immaginazione”.

L’Andersen ancora ci affascina perché la sua arte ci arriva dai pochi mezzi a disposizione; tutti gli oggetti che si trovano in casa, infatti, sono usati dai personaggi delle sue fiabe in funzione del giuoco. Non è importante, quindi, un giocattolo specifico per “fare il giuoco” quanto qualsiasi oggetto facente-funzione a stimolare la fantasia del bambino.
Le innovazioni di questa nostra èra industrial-tecnologica hanno largamente influenzato, con deleteria fiera consumistica, anche l’industria del giocattolo; tant’è che le “nuove diavolerie meccanizzate”, strutturate fin nei minimi particolari, si cambiano oggi nella stanza dei balocchi con la stessa facilità dell’abito pret-a-porter; e questo significa, in parte, la morte dello stimolo alla fantasia con il quale ognuno di noi, fino a qualche decennio addietro, inconsciamente ma serenamente, riusciva dal nulla o dal poco a creare o a trasformare tutte le cose.

E qui, nella sala allestita presso la Biblioteca Nazionale, riusciamo per un po’, con l’aiuto dei personaggi delle favole, a ritrovare il rispetto verso tutti e verso le cose più umili, insieme alla gioia di sollevare le sofferenze degli altri ed alla virtù largamente benefica del sorriso fatta di immagini gentili. Solo così “il mondo nasce per ognun che nasce al mondo”, come insegnava il Pascoli.

Burattini, vestiti, leoni e cavalli con le ali, balocchi di mille strane forme recitavano drammi spettacolosi e tragedie terribili nella mente inquieta del piccolo Andersen. Egli animava e coloriva anche i più insignificanti particolari. Fino agli ultimi anni della sua vita, a Natale, la grande tavola del suo studio era coperta di fogli colorati, di stagnola, di boccette di gomma, d’aghi e di forbici; ed il vecchio glorioso s’affaccendava a fabbricare moschee colorate con minareti aguzzi, mulini a vento, ballerini e damigelle.

Egli, dai suoi poveri natali e dopo una vita di stenti, proprio come in una fiaba, fu accolto nelle più belle case di Copenaghen fino a diventare famoso nel mondo intero.

“Sono una strana creatura”, - scriveva alla madre nell’ottobre del 1826 – “se il vento soffia un po’ forte, subito gli occhi mi lacrimano. Eppure so benissimo che la vita non può già essere tutta serena come un bel giorno di maggio”.

Dai suoi viaggi all’estero, con l’appannaggio di una borsa di studio messa a sua disposizione dalla Reale Corte Danese, schizzi che conservava gelosamente per mostrarli solo ai più intimi amici. Molti di questi soggetti sono stati ispirati da paesaggi italiani molto amati dall’Andersen ed ampiamente descritti, a tinte e quadri vivaci, anche nel suo famoso romanzo “L’Improvvisatore”.

Tra le cose più belle che troviamo qui a Roma, vi è anche una copia in grandezza originale del paravento che l’Andersen decorò durante gli ultimi anni della sua vita. Su di esso, collegate e fuse insieme in otto sezioni, sono rappresentate, con estro poetico e surrealistico, figure della storia e dell’arte, sullo sfondo di paesaggi ed ambienti particolari, in una cornice da fiaba fantastica dove le immagini colorate e quelle in bianco e nero s’intrecciano a collage in un sogno senza fine.








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