Thursday, March 09, 2006

"PHILOBOLUS DANCE Theatre"- Recensione di Ettore Mosciano - Danza moderna -











"La pan-energheia evoluzionistica del Philobolus Dance Theatre”.
di Ettore Mosciano.

Il binomio Arte-Scienza costituisce da sempre il tessuto narrante di civiltà millenarie e dà di queste un’immagine del loro grado di evoluzione. E’ naturale, quindi, che gli uomini studiosi dell’una e dell’altra delle due discipline si siano conteso il primato della operosità e della creatività. Spesso è avvenuto che nei grandi ingegni questo binomio disciplinare sia stato complementare, tanto da avere risultati artistici e scientifici di originale e preziosa conoscenza culturale. Artisti come Kandinskij, Klee, Mirò hanno sapientemente studiato le scienze naturali per riproporci, con l’arte pittorica, nuove trasposizioni ed interpretazioni di una realtà fantastica astratta o surreale, con armonie cromatiche e figurative.

Anche “Pilobolus” nasce come trasposizione artistica di un fenomeno osservato nel regno delle scienze naturali. Pilobolus è, infatti, un microrganismo unicellulare della famiglia dei funghi. All’incirca nel 1968, uno studente delle scuole medie superiori, Jonathan Wolken – futuro ballerino – stava aiutando suo padre, professore di biofisica, in alcune operazioni al microscopio. Fu in questo momento che avvenne il suo incontro con questo fungo particolare. Un piccolo fungo con una vitalità immensa che si contorce, si erge, si estende e che ama la luce ed il sole tanto da schizzare le sue spore a molti metri di altezza. Trovare il movimento, la vita, l’energia vibrante nel piccolo organismo, fu per Jonathan Wolken la rivelazione immediata che l’azione artistica poteva e doveva rendere quella bellezza scientifica con i movimenti della danza.
Egli costituisce così un gruppo di amici, poi studenti universitari, con alle spalle soltanto una buona preparazione in attività sportive varie. Non potendo, per inesperienza, seguire i rigori stilistici della danza classica, il gruppo inventa figurazioni coreografiche nuove, allargando l'osservazione su tutti gli altri elementi delle scienze naturali, sulle tecnologie in evoluzione, sul linguaggio del corpo e quello delle relazioni sociali.






















Non a caso i componenti del “Pilobolus Dance Theatre” sono studenti di letteratura, filosofia, elettronica, biologia e sociologia. L’esplorazione laboriosa di tutte le possibilità dinamiche ed espressive del corpo umano, da parte del gruppo, trovò coronamento poi nella frequenza dei corsi di composizione e improvvisazione coreografica di Alison Chase, danzatrice laureata in balletto classico. La Chase diventa presto l’elemento catalizzatore del gruppo, il quale decide, più tardi, di andare a studiare e vivere collettivamente in una fattoria del Vermont.

Giancarlo Menotti, nel 1976, li osserva in alcuni spettacoli di periferia e li invita per la prima volta in Italia, a Spoleto, dove la compagnia americana del “Pilobolus” dimostra la sua già matura crescita artistica.

I due spettacoli che a giorni alterni il “Pilobolus Dance Theatre” ha presentato qui a Roma, al Teatro Olimpico, sotto il patrocinio dell’estroso Pierre Cardin, sono composti in totale di undici quadri coreografici. La sequenza della rappresentazione dei quadri è spesso libera, essendo stati i vari quadri ideati e costruiti da un’idea base, ma tecnicamente e narrativamente con dinamiche di ordine aperte. L’interpretazione, quindi, da parte dello spettatore, è altrettanto poliedrica di senso e combinazioni di significati.



A noi piace, tuttavia, tentare una interpretazione.
I nodi e gli intrecci dei corpi-oggetto, strumenti di azione coreografica, nelle fasi iniziali del “Monshood’s Farewell” hanno richiamato alla memoria personaggi d'epoca medioevale che, come dall’osservazione dei famosi quadri di Bosch, ci affascinano ed allo stesso tempo creano timore, per la presenza delle forme mostruose, delle azioni espresse non sempre rassicuranti,
comportamenti di una comunità non ancora educata ed evoluta.

I corpi dei danzatori avvertono lentamente la propria e l'altrui fisicità. Il tatto dei corpi trasforma e deforma, combina nuove forme, stringe, allaccia, rotola in un groviglio. Perfino quattro pentole di latta gettate intorno ad un pantomimo-Pierrot hanno un "loro linguaggio" coreografico nel quadro “Pseudopòdia”, interpretato ed ideato magistralmente dallo stesso Jonathan Wolken.
La possibilità di armonia nel contatto può scaturire da quella energia combinatoria che è in tutti gli elementi del nostro universo, come avvenne alle origini.
Il graduale trapasso a forme di vita più evolute si avverte in “Ocellus” dove i corpi figurano composizioni più armoniche, più intelligentemente combinate dallo spirito umano, tanto da ammiccare alle possibilità scientifiche odierne di movimenti in uno spazio in assenza di gravità. Eppoi, quelle figure che si muovono diligentemente a scatti, con un ritmo così scrupolosamente dosato, sembrano parti recitative di un teatro giapponese o congegni rinascimentali di oggetti meccanizzati.

L’ilarità anche, dono prezioso concessoci in questo spettacolo, viene suscitata da alcune scene in atmosfera primaverile di“Untitled” ed in quelle di “Walklyndon”.

La bravissima Alison Chase possiamo ammirarla, oltre che nei gruppi, nella composizione coreografica “Lost in Fauna” come pantomima zoomorfa che ricama, con la sua arte, flessuose modellazioni; ed ancora nello stupendo duetto “Shizen” con Moses Pendleton, in cui si rappresentano le sensazioni che hanno due esseri che scoprono per la prima volta il loro aspetto fisico riflesso sull'acqua di un lago.


Tutto è energia, quindi, in queste danze; e tutta l’energia è per un crescendo di forme in evoluzione. Elettroni in movimento, atomi e molecole. Chi può impedirci di pensare ai moduli combinatori delle macchine cibernetiche, quando i corpi dei danzatori s’intrecciano con atletica maestria nelle sequenze a rallentatore di “Ciona” o in “Monkshood’s Farewell”? Se non fosse per la stanchezza fisica dei danzatori, le figurazioni dei suoni dell’acqua e dello scricchiolìo degli alberi potrebbero veramente continuare ancora, infinitamente; come d’altronde la vita nel nostro universo. Una vita che è diventata con la danza arte, e l’arte stessa vita. Ma quello che più colpisce noi spettatori è che quei danzatori, con la loro fonte di inesauribile creatività, hanno lasciato anche nel nostro animo un desiderio di nuove e future armonie; saranno o sono esse quelle suggeriteci dalla danza moderna e dalle pitture astratte di Kandinskij, di Klee e di Mirò, dai “mobiles” di Calder, così animatamente composite ed armonicamente equilibrate?

Le musiche, tutte di gradevole ed appropriato effetto, hanno ora cadenze orientali ed altre volte estensioni della musica elettronica. Le luci, sapientemente giuocate, hanno un ruolo determinante nell’azione coreografica.










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