Wednesday, March 08, 2006

REVERDY Pierre, poeta - Recensione di Ettore Mosciàno








REVERDY Pierre: “La psicofonia poetica. Poesia cubista?” di Ettore Mosciano.
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Nel gennaio del 1961, a pochi mesi di distanza dalla scomparsa di Pierre Reverdy, Tristan Tzara, quasi con sdegno, scrisse: “Sarà una delle vergogne del nostro tempo il non aver saputo mettere Pierre Reverdy al posto che gli spetta e che è certamente tra i più elevati: Se, nela linea che va da Baudelaire, da Mallarmé e da Rimbaud a SaintPol-Roux, Jarry e Apollinaire, Reverdy trova il suo posto naturale accanto a Max Jacob e a Blaise Cendrars, il disinteresse della nostra epoca per la sua prestigiosa maestria, per la profondità raggiunta da questo poeta, non dovrebbe essere inteso che come un insulto allo spirito. Un oltraggio tanto più grave, mi sembra, in quanto i valori corrispondenti nel dominio delle arti plastiche hanno beneficiato di una consacrazione smisurata rispetto ai flebili echi suscitati dalla sua poesia.

Non ci si può impedire di attribuire buona parte di questo fenomeno a ragioni di ordine mercantile le quali, piuttosto che salvaguardare la purezza della poesia propriamente detta, gettano un’ombra inquietante su quella che chiamiamo la nostra civiltà.
E’ vero che Baudelaire, Lautreamont, Rimbaud e tanti altri poeti, hanno dovuto pagare con la loro morte il diritto di sopravvivere nella coscienza degli uomini. Bisogna credere che, con i tempi che corrono, sia necessaria una duplice morte, quella del poeta e quella della sua epoca, perché questa coscienza (quella degli uomini, n.d.r.) si manifesti sotto la forma di una tardiva riabilitazione? In questo caso – e non insisteremo mai abbastanza su ciò – l’annientamento dei valori umani sarebbe la conseguenza inevitabile, segno premonitore dell’annientamento del mondo dello spirito e della sensibilità. Pierre Reverdy, la cui poesia è un atteggiamento nei confronti della vita, una concezione del mondo che non potrebbe essere distaccata dalla coscienza del poeta, dovrebbe servire da modello alle giovani generazioni. E’ nel fondo specifico della sua purezza che occorrerà cercare l’esempio di una incrollabile integrità, di una volontà creatrice che esclude qualsiasi idea di concessione o di compiacimento”.

Quella di tristan Tzara è una radiografia lampante di attuali accadimenti di vita culturale asservita al regime politico di comodo che tende sempre più a reprimere o a cancellare le espressioni degli uomini di spirito libero.

Pierre Reverdy, con inimitabile coerenza rispetto ai nostri giorni, ha vissuto l’intenso rapporto dialettico fra l’essere ed una sua proiezione trascendentale sottolineando il valore primario dell’esistenza, da cui ha derivato la consapevolezza della temporaneità, del condizionamento, dei limiti della vita di ciascuno; la necessità di “esistere” in un permanente condizionamento di situazioni, la demistificazione dei “valori” consumisticamente tradizionali, il senso della problematicità quotidiana, hanno costituito, infatti, la struttura portante di quasi tutta la poesia reverdiana.

Qualche volta, ma forse erroneamente, si è parlato di Reverdy come di un poeta cubista; ma, a noi pare, che una suddetta area letteraria sia di difficile identificazione, e che, in essa, Reverdy si sia trovato a vivere soltanto cronologicamente. Il gruppo dei letterati e dei pittori che si raccoglievano intorno al Bateau Lavoir, a Montmartre, ed in cui Reverdy viene accolto una volta giunto a Parigi dalla provincia, non servì ad altro che a giustificare il suo allontanamento dalla proprietà agricola familiare; difatti, come nei suoi anni giovanili in seno alla famiglia, la solitudine del poeta progredisce ininterrottamente anche quando l’arrivo a Parigi, grande metropoli, dovrebbe creare una svolta significativa nella sua vita. Egli, invece, non prova che un amaro impatto con la realtà delle macchine e dei tramways nei mattini grigi d’inverno.

Se di cubismo si può parlare nella poesia di Reverdy, esso si può ravvisare, forse, nelle facce poliedriche e ravvicinate delle molteplici e contemporanee impressioni che il suo occhio fotografa da una solitaria angolazione spirituale e psicologica.
Ma restiamo in un campo prettamente formale. Le sue sfaccettature poetiche provengono da una inquadratura ottica temporaneamente fissata. Manca, al Reverdy, lo spirito rivoluzionario e libertino dell’animo cubista che vuole rompere con la tradizione delle aree poetiche ed estetiche classiche, alle quali invece lui degnamente si riallaccia con tutta la sua pregnanza mistica e filosofica.

“Le Voleur de Talan” è senz’altro il ritratto più fedele di quello che P. Reverdy era nei suoi primi tempi a Parigi, e rimane ancora una delle opere più caratteristiche della sua personalità artistica. Come ebbe4 a dire lo stesso autore alla sua amica libraia Adrienne Monnier, esso è un libro “fermissimo” ma di sfortunata sorte. Un fedele ritratto del tempo del suo esordio nel modo delle lettere; ma anche un addio al mondo tra personaggi fantasmi che sprofondano nella nebbia e nella notte.

Il libro è iniziato con una prefazione-dedica di ricordi di vita agreste, segnatamente psicologici, legati al desiderio del sangue-inchiostro dello scrittore. Il passato, i ricordi, come buone ferite:

“Gli anni passano veloci nella
mente cupa di un fanciullo.
Dopo è solo un ricordo unico che si
trasforma.
[……. ]
Tuttavia se si guarda
attentamente lo stesso punto ci
s’accorge che non si è mosso.
E’ un gioco di luci
Non si vedono più gli stessi colori
e le orecchie anche saranno cambiate
[……..]
Al fondo di sé c’è sempre un povero fanciullo che
piange”.

In questa “recherche” del tempo perduto, su cui riflette con distaccato raziocinio, s’avverte già il problema di fondo della poesia reverdiana: il problema esistenziale come pianto d’un bimbo nei meandri della propria coscienza. Egli non ama Parigi ma vi resta: perché è questo contrasto che gli dà la forza di esprimersi, di inventare un’altra realtà, che possa soddisfare il suo mistero anagogico, la sua sete all’irrinunciabile desiderio di trovare intorno a sé l’armonia divina:



“In basso un bambino gridava delle
ingiurie
Una finestra si chiudeva
e la strada tornava tranquilla
Tutto il bene mi viene soltanto dall’alto
La forza e la gioia
Niente dalla terra
Il sole splende per errore ed una notte nera
vi dovrebbe regnare.
L’inferno non è più incantevole
Se io potessi cambiare posto
andrei bene a piedi perché ho le
ali e spogliatomi delle scarpe io
non farei fatica
Ma la poesia non esiste altrove”.

Vi sono in “Le voleur de Talan” riflessioni esistenziali intercalate ad immagini impressionistiche:

“Se il vento si alza qualche volta per
scuotere gli alberi e spazzare via
la polvere a chi lo dobbiamo”.

L’idea del pellegrinaggio a piedi, lo sguardo aperto a tutti gli orizzonti, l’animo in solitudine per avvicinare le cose, conferiscono a Reverdy uno spirito medievale di tipo francescano:

“Ho imparato a cantare agli uccelli.
Ai poeti a servirsi delle stelle e dei versi
brillanti senza confonderli
Ho giocato col sole e la luna
Così ho creato l’equilìbrio
E il cielo”.

L’angelica leggerezza esistenziale di reverdy è il rifugio dovuto ad una disperazione per l’eternità del mondo e la crudeltà dell’effimero nostro passaggio. La solitudine tra la folla, dopo il lavoro, è identica a quella che si crea nelle atmosfere rarefatte della sua casa parigina; ed entrambe danno luogo alle continue impressioni di silenzio delle cose avvolte di un loro mistero, di qualcosa di più alto:

“Parigi galleggia sopra un mare lucente
i boulevards sono fiumi
dove si perde la buona volontà di
qualche donna tenace
[………]
Allora bisogna cercare la propria strada in mezzo
a strani visi dove lo sguardo s’annoia”.

Il poeta racconta la sua ascesi spirituale alternando la poesia alla prosa poetica, sempre con un lirismo distillato; l’entusiasmo presto si sostituisce alla freddezza; ma tutto è fatto sempre per conservare il proprio equilibrio interiore: “La verità e la follia si scaricano in noi lasciandoci tutta la responsabilità dei nostri atti. Ma ci mancano i mezzi per rimanere semplici come le cose inerti. L’oscurità e la luce ci trasformano.
La sensibilità è una triste eredità che ognuno conoscerà ed è un nemico indispensabile che bisogna combattere, senza esserne mai completamente vincitori, dal momento che il suicidio è un’idiozia”.

Ne “La maggior parte del tempo” (di cui ricordiamo l’ottima edizione per i tipi di Guanda con l’introduzione e la traduzione di Franco Cavallo, del 1966), come in “Le gant de crin”, “Self defense”, “Le livre de mon bord” e “En vrac”, Reverdy è sempre in preda ad un furore mistico e fantastico con il quale riesce a non distruggere la realtà, ma se ne serve, per crearne una nuova, surreale, come in alcuni quadri di Chagall; e, senza chiudersi in una rigida ortodossia, egli ricompone la sua surrealtà metafisica con raziocinio, nell’assoluto silenzio, in un’area dechirichiana, tanto per restare tra le immagini pittoriche.

“La realtà non motiva l’opera d’arte” – egli dice – “Si parte dalla vita per ottenere un’altra realtà”. Ed in questa avventura dell0o spirito il poeta sente la instabilità cosmica della terra sotto i piedi. Egli scrive come aggrappato ad un pallone volante, ma il suo fine è scoprire la grandezza dell’universo e la poesia nelle cose che apparentemente non hanno vita, o che non ci sono come presenza materiale. La poesia nasce a causa di quello che egli stesso dice in “En vrac”, è in quello che ci manca, nei luoghi in cui noi vorremmo essere e noi non siamo.

Per quanto impressionante, questa nascita della poesia come esigenza colmante lo stato di insoddisfazione dell’essere, appare di un dinamismo psicologico pari alle rivoluzioni culturali giovanili dei nostri giorni. L’uomo, come tutti gli altri elementi dell’universo, racchiude in sé la poesia e riesce ad espletarla soltanto guardando altrettante situazioni riposte, non evidenti, da estrapolare al di là o tra le pieghe di una realtà materialistica.




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