Sunday, March 19, 2006

PITTURA di Lillo MESSINA - Recensione di Ettore Mosciàno



"Pittura ecologico-socratica di Lillo Messina alla Galleria "Il Grifo" di Roma".


L'apparente freddezza, le tinte così nitidamente separate, la partecipazione critica senza indicazioni di soluzione, sono gli elementi che a prima vista emergono dalle opere di Lillo Messina. Ma un'analisi attenta ci rivela, poi, il grado di maturità artistica di questo pittore che ci propone le sue opere piene di riferimento ad una tematica sofferta, vissuta personalmente, quasi con tragicità.

Dallo spazio plein-air in cui colloca la sua attenta e tragica critica alla civiltà contemporanea, agli aculei energumeni meccanizzati-animali rapaci (simboli fallocratici?) emerge un modo artistico di osservare una realtà meccanicistica invadente con la preveggenza di un profeta. L'uovo embrione, simbolo magmatico dell'origine di nuova linfa vitale, appare nelle sue opere sempre minacciato dalle presenze di oggetti sventranti, decapitanti (coltelli, asce, puntiglioni metallici, baionette, water-closed), nella realistica visione eterodossa e guazzabugliera dell'era tecnologica odierna.

Al di là delle indicazioni pittoriche, c'è in Lillo Messina una nostalgica reminiscenza dello spirito umanistico in cui il recupero dell'uomo alla serenità ed alla piacevolezza della vita è fonte e sorgente prima di un amore e di un rispetto vissuti a contatto con le cose della Natura.

Le sabbie accoltellate sono per l'artista una risposta innaturale, e purtroppo preconizzata, ai mostri meccanici sorgenti dall'acqua marina. Quali altri argini ci si può aspettare di trovare all'invadenza di siffatti oggetti apocalittici?

L'artista, forse, come sembra indicare in qualche opera, attende che qualcuno raccolga l'ultimo possibile messaggio ancora racchiuso in quella bottiglia gettata in mare, ed ora approdata alla darsena, con cui un misterioso messaggero, da altri pianeti, o da altri oceani, ha voluto inviarci l'ultimo avvertimento, segno di una pur rimasta minima speranza, per il rifiorire di quell'Uomo Nuovo le cui radici risalgono alla millenaria e socratica saggezza greca.

Ed è proprio di questa saggezza che Lillo Messina si fa interprete in maniera dialettica, riportando sempre il suo discorso pittorico al valore di una idea di purezza naturalistica. L'arte, sembra dire egli, non può fare a meno della filosofia: ed è in questo rapporto che si trova la sintesi profonda tra bellezza e verità.



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Thursday, March 09, 2006

"PHILOBOLUS DANCE Theatre"- Recensione di Ettore Mosciano - Danza moderna -











"La pan-energheia evoluzionistica del Philobolus Dance Theatre”.
di Ettore Mosciano.

Il binomio Arte-Scienza costituisce da sempre il tessuto narrante di civiltà millenarie e dà di queste un’immagine del loro grado di evoluzione. E’ naturale, quindi, che gli uomini studiosi dell’una e dell’altra delle due discipline si siano conteso il primato della operosità e della creatività. Spesso è avvenuto che nei grandi ingegni questo binomio disciplinare sia stato complementare, tanto da avere risultati artistici e scientifici di originale e preziosa conoscenza culturale. Artisti come Kandinskij, Klee, Mirò hanno sapientemente studiato le scienze naturali per riproporci, con l’arte pittorica, nuove trasposizioni ed interpretazioni di una realtà fantastica astratta o surreale, con armonie cromatiche e figurative.

Anche “Pilobolus” nasce come trasposizione artistica di un fenomeno osservato nel regno delle scienze naturali. Pilobolus è, infatti, un microrganismo unicellulare della famiglia dei funghi. All’incirca nel 1968, uno studente delle scuole medie superiori, Jonathan Wolken – futuro ballerino – stava aiutando suo padre, professore di biofisica, in alcune operazioni al microscopio. Fu in questo momento che avvenne il suo incontro con questo fungo particolare. Un piccolo fungo con una vitalità immensa che si contorce, si erge, si estende e che ama la luce ed il sole tanto da schizzare le sue spore a molti metri di altezza. Trovare il movimento, la vita, l’energia vibrante nel piccolo organismo, fu per Jonathan Wolken la rivelazione immediata che l’azione artistica poteva e doveva rendere quella bellezza scientifica con i movimenti della danza.
Egli costituisce così un gruppo di amici, poi studenti universitari, con alle spalle soltanto una buona preparazione in attività sportive varie. Non potendo, per inesperienza, seguire i rigori stilistici della danza classica, il gruppo inventa figurazioni coreografiche nuove, allargando l'osservazione su tutti gli altri elementi delle scienze naturali, sulle tecnologie in evoluzione, sul linguaggio del corpo e quello delle relazioni sociali.






















Non a caso i componenti del “Pilobolus Dance Theatre” sono studenti di letteratura, filosofia, elettronica, biologia e sociologia. L’esplorazione laboriosa di tutte le possibilità dinamiche ed espressive del corpo umano, da parte del gruppo, trovò coronamento poi nella frequenza dei corsi di composizione e improvvisazione coreografica di Alison Chase, danzatrice laureata in balletto classico. La Chase diventa presto l’elemento catalizzatore del gruppo, il quale decide, più tardi, di andare a studiare e vivere collettivamente in una fattoria del Vermont.

Giancarlo Menotti, nel 1976, li osserva in alcuni spettacoli di periferia e li invita per la prima volta in Italia, a Spoleto, dove la compagnia americana del “Pilobolus” dimostra la sua già matura crescita artistica.

I due spettacoli che a giorni alterni il “Pilobolus Dance Theatre” ha presentato qui a Roma, al Teatro Olimpico, sotto il patrocinio dell’estroso Pierre Cardin, sono composti in totale di undici quadri coreografici. La sequenza della rappresentazione dei quadri è spesso libera, essendo stati i vari quadri ideati e costruiti da un’idea base, ma tecnicamente e narrativamente con dinamiche di ordine aperte. L’interpretazione, quindi, da parte dello spettatore, è altrettanto poliedrica di senso e combinazioni di significati.



A noi piace, tuttavia, tentare una interpretazione.
I nodi e gli intrecci dei corpi-oggetto, strumenti di azione coreografica, nelle fasi iniziali del “Monshood’s Farewell” hanno richiamato alla memoria personaggi d'epoca medioevale che, come dall’osservazione dei famosi quadri di Bosch, ci affascinano ed allo stesso tempo creano timore, per la presenza delle forme mostruose, delle azioni espresse non sempre rassicuranti,
comportamenti di una comunità non ancora educata ed evoluta.

I corpi dei danzatori avvertono lentamente la propria e l'altrui fisicità. Il tatto dei corpi trasforma e deforma, combina nuove forme, stringe, allaccia, rotola in un groviglio. Perfino quattro pentole di latta gettate intorno ad un pantomimo-Pierrot hanno un "loro linguaggio" coreografico nel quadro “Pseudopòdia”, interpretato ed ideato magistralmente dallo stesso Jonathan Wolken.
La possibilità di armonia nel contatto può scaturire da quella energia combinatoria che è in tutti gli elementi del nostro universo, come avvenne alle origini.
Il graduale trapasso a forme di vita più evolute si avverte in “Ocellus” dove i corpi figurano composizioni più armoniche, più intelligentemente combinate dallo spirito umano, tanto da ammiccare alle possibilità scientifiche odierne di movimenti in uno spazio in assenza di gravità. Eppoi, quelle figure che si muovono diligentemente a scatti, con un ritmo così scrupolosamente dosato, sembrano parti recitative di un teatro giapponese o congegni rinascimentali di oggetti meccanizzati.

L’ilarità anche, dono prezioso concessoci in questo spettacolo, viene suscitata da alcune scene in atmosfera primaverile di“Untitled” ed in quelle di “Walklyndon”.

La bravissima Alison Chase possiamo ammirarla, oltre che nei gruppi, nella composizione coreografica “Lost in Fauna” come pantomima zoomorfa che ricama, con la sua arte, flessuose modellazioni; ed ancora nello stupendo duetto “Shizen” con Moses Pendleton, in cui si rappresentano le sensazioni che hanno due esseri che scoprono per la prima volta il loro aspetto fisico riflesso sull'acqua di un lago.


Tutto è energia, quindi, in queste danze; e tutta l’energia è per un crescendo di forme in evoluzione. Elettroni in movimento, atomi e molecole. Chi può impedirci di pensare ai moduli combinatori delle macchine cibernetiche, quando i corpi dei danzatori s’intrecciano con atletica maestria nelle sequenze a rallentatore di “Ciona” o in “Monkshood’s Farewell”? Se non fosse per la stanchezza fisica dei danzatori, le figurazioni dei suoni dell’acqua e dello scricchiolìo degli alberi potrebbero veramente continuare ancora, infinitamente; come d’altronde la vita nel nostro universo. Una vita che è diventata con la danza arte, e l’arte stessa vita. Ma quello che più colpisce noi spettatori è che quei danzatori, con la loro fonte di inesauribile creatività, hanno lasciato anche nel nostro animo un desiderio di nuove e future armonie; saranno o sono esse quelle suggeriteci dalla danza moderna e dalle pitture astratte di Kandinskij, di Klee e di Mirò, dai “mobiles” di Calder, così animatamente composite ed armonicamente equilibrate?

Le musiche, tutte di gradevole ed appropriato effetto, hanno ora cadenze orientali ed altre volte estensioni della musica elettronica. Le luci, sapientemente giuocate, hanno un ruolo determinante nell’azione coreografica.










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Wednesday, March 08, 2006

REVERDY Pierre, poeta - Recensione di Ettore Mosciàno








REVERDY Pierre: “La psicofonia poetica. Poesia cubista?” di Ettore Mosciano.
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Nel gennaio del 1961, a pochi mesi di distanza dalla scomparsa di Pierre Reverdy, Tristan Tzara, quasi con sdegno, scrisse: “Sarà una delle vergogne del nostro tempo il non aver saputo mettere Pierre Reverdy al posto che gli spetta e che è certamente tra i più elevati: Se, nela linea che va da Baudelaire, da Mallarmé e da Rimbaud a SaintPol-Roux, Jarry e Apollinaire, Reverdy trova il suo posto naturale accanto a Max Jacob e a Blaise Cendrars, il disinteresse della nostra epoca per la sua prestigiosa maestria, per la profondità raggiunta da questo poeta, non dovrebbe essere inteso che come un insulto allo spirito. Un oltraggio tanto più grave, mi sembra, in quanto i valori corrispondenti nel dominio delle arti plastiche hanno beneficiato di una consacrazione smisurata rispetto ai flebili echi suscitati dalla sua poesia.

Non ci si può impedire di attribuire buona parte di questo fenomeno a ragioni di ordine mercantile le quali, piuttosto che salvaguardare la purezza della poesia propriamente detta, gettano un’ombra inquietante su quella che chiamiamo la nostra civiltà.
E’ vero che Baudelaire, Lautreamont, Rimbaud e tanti altri poeti, hanno dovuto pagare con la loro morte il diritto di sopravvivere nella coscienza degli uomini. Bisogna credere che, con i tempi che corrono, sia necessaria una duplice morte, quella del poeta e quella della sua epoca, perché questa coscienza (quella degli uomini, n.d.r.) si manifesti sotto la forma di una tardiva riabilitazione? In questo caso – e non insisteremo mai abbastanza su ciò – l’annientamento dei valori umani sarebbe la conseguenza inevitabile, segno premonitore dell’annientamento del mondo dello spirito e della sensibilità. Pierre Reverdy, la cui poesia è un atteggiamento nei confronti della vita, una concezione del mondo che non potrebbe essere distaccata dalla coscienza del poeta, dovrebbe servire da modello alle giovani generazioni. E’ nel fondo specifico della sua purezza che occorrerà cercare l’esempio di una incrollabile integrità, di una volontà creatrice che esclude qualsiasi idea di concessione o di compiacimento”.

Quella di tristan Tzara è una radiografia lampante di attuali accadimenti di vita culturale asservita al regime politico di comodo che tende sempre più a reprimere o a cancellare le espressioni degli uomini di spirito libero.

Pierre Reverdy, con inimitabile coerenza rispetto ai nostri giorni, ha vissuto l’intenso rapporto dialettico fra l’essere ed una sua proiezione trascendentale sottolineando il valore primario dell’esistenza, da cui ha derivato la consapevolezza della temporaneità, del condizionamento, dei limiti della vita di ciascuno; la necessità di “esistere” in un permanente condizionamento di situazioni, la demistificazione dei “valori” consumisticamente tradizionali, il senso della problematicità quotidiana, hanno costituito, infatti, la struttura portante di quasi tutta la poesia reverdiana.

Qualche volta, ma forse erroneamente, si è parlato di Reverdy come di un poeta cubista; ma, a noi pare, che una suddetta area letteraria sia di difficile identificazione, e che, in essa, Reverdy si sia trovato a vivere soltanto cronologicamente. Il gruppo dei letterati e dei pittori che si raccoglievano intorno al Bateau Lavoir, a Montmartre, ed in cui Reverdy viene accolto una volta giunto a Parigi dalla provincia, non servì ad altro che a giustificare il suo allontanamento dalla proprietà agricola familiare; difatti, come nei suoi anni giovanili in seno alla famiglia, la solitudine del poeta progredisce ininterrottamente anche quando l’arrivo a Parigi, grande metropoli, dovrebbe creare una svolta significativa nella sua vita. Egli, invece, non prova che un amaro impatto con la realtà delle macchine e dei tramways nei mattini grigi d’inverno.

Se di cubismo si può parlare nella poesia di Reverdy, esso si può ravvisare, forse, nelle facce poliedriche e ravvicinate delle molteplici e contemporanee impressioni che il suo occhio fotografa da una solitaria angolazione spirituale e psicologica.
Ma restiamo in un campo prettamente formale. Le sue sfaccettature poetiche provengono da una inquadratura ottica temporaneamente fissata. Manca, al Reverdy, lo spirito rivoluzionario e libertino dell’animo cubista che vuole rompere con la tradizione delle aree poetiche ed estetiche classiche, alle quali invece lui degnamente si riallaccia con tutta la sua pregnanza mistica e filosofica.

“Le Voleur de Talan” è senz’altro il ritratto più fedele di quello che P. Reverdy era nei suoi primi tempi a Parigi, e rimane ancora una delle opere più caratteristiche della sua personalità artistica. Come ebbe4 a dire lo stesso autore alla sua amica libraia Adrienne Monnier, esso è un libro “fermissimo” ma di sfortunata sorte. Un fedele ritratto del tempo del suo esordio nel modo delle lettere; ma anche un addio al mondo tra personaggi fantasmi che sprofondano nella nebbia e nella notte.

Il libro è iniziato con una prefazione-dedica di ricordi di vita agreste, segnatamente psicologici, legati al desiderio del sangue-inchiostro dello scrittore. Il passato, i ricordi, come buone ferite:

“Gli anni passano veloci nella
mente cupa di un fanciullo.
Dopo è solo un ricordo unico che si
trasforma.
[……. ]
Tuttavia se si guarda
attentamente lo stesso punto ci
s’accorge che non si è mosso.
E’ un gioco di luci
Non si vedono più gli stessi colori
e le orecchie anche saranno cambiate
[……..]
Al fondo di sé c’è sempre un povero fanciullo che
piange”.

In questa “recherche” del tempo perduto, su cui riflette con distaccato raziocinio, s’avverte già il problema di fondo della poesia reverdiana: il problema esistenziale come pianto d’un bimbo nei meandri della propria coscienza. Egli non ama Parigi ma vi resta: perché è questo contrasto che gli dà la forza di esprimersi, di inventare un’altra realtà, che possa soddisfare il suo mistero anagogico, la sua sete all’irrinunciabile desiderio di trovare intorno a sé l’armonia divina:



“In basso un bambino gridava delle
ingiurie
Una finestra si chiudeva
e la strada tornava tranquilla
Tutto il bene mi viene soltanto dall’alto
La forza e la gioia
Niente dalla terra
Il sole splende per errore ed una notte nera
vi dovrebbe regnare.
L’inferno non è più incantevole
Se io potessi cambiare posto
andrei bene a piedi perché ho le
ali e spogliatomi delle scarpe io
non farei fatica
Ma la poesia non esiste altrove”.

Vi sono in “Le voleur de Talan” riflessioni esistenziali intercalate ad immagini impressionistiche:

“Se il vento si alza qualche volta per
scuotere gli alberi e spazzare via
la polvere a chi lo dobbiamo”.

L’idea del pellegrinaggio a piedi, lo sguardo aperto a tutti gli orizzonti, l’animo in solitudine per avvicinare le cose, conferiscono a Reverdy uno spirito medievale di tipo francescano:

“Ho imparato a cantare agli uccelli.
Ai poeti a servirsi delle stelle e dei versi
brillanti senza confonderli
Ho giocato col sole e la luna
Così ho creato l’equilìbrio
E il cielo”.

L’angelica leggerezza esistenziale di reverdy è il rifugio dovuto ad una disperazione per l’eternità del mondo e la crudeltà dell’effimero nostro passaggio. La solitudine tra la folla, dopo il lavoro, è identica a quella che si crea nelle atmosfere rarefatte della sua casa parigina; ed entrambe danno luogo alle continue impressioni di silenzio delle cose avvolte di un loro mistero, di qualcosa di più alto:

“Parigi galleggia sopra un mare lucente
i boulevards sono fiumi
dove si perde la buona volontà di
qualche donna tenace
[………]
Allora bisogna cercare la propria strada in mezzo
a strani visi dove lo sguardo s’annoia”.

Il poeta racconta la sua ascesi spirituale alternando la poesia alla prosa poetica, sempre con un lirismo distillato; l’entusiasmo presto si sostituisce alla freddezza; ma tutto è fatto sempre per conservare il proprio equilibrio interiore: “La verità e la follia si scaricano in noi lasciandoci tutta la responsabilità dei nostri atti. Ma ci mancano i mezzi per rimanere semplici come le cose inerti. L’oscurità e la luce ci trasformano.
La sensibilità è una triste eredità che ognuno conoscerà ed è un nemico indispensabile che bisogna combattere, senza esserne mai completamente vincitori, dal momento che il suicidio è un’idiozia”.

Ne “La maggior parte del tempo” (di cui ricordiamo l’ottima edizione per i tipi di Guanda con l’introduzione e la traduzione di Franco Cavallo, del 1966), come in “Le gant de crin”, “Self defense”, “Le livre de mon bord” e “En vrac”, Reverdy è sempre in preda ad un furore mistico e fantastico con il quale riesce a non distruggere la realtà, ma se ne serve, per crearne una nuova, surreale, come in alcuni quadri di Chagall; e, senza chiudersi in una rigida ortodossia, egli ricompone la sua surrealtà metafisica con raziocinio, nell’assoluto silenzio, in un’area dechirichiana, tanto per restare tra le immagini pittoriche.

“La realtà non motiva l’opera d’arte” – egli dice – “Si parte dalla vita per ottenere un’altra realtà”. Ed in questa avventura dell0o spirito il poeta sente la instabilità cosmica della terra sotto i piedi. Egli scrive come aggrappato ad un pallone volante, ma il suo fine è scoprire la grandezza dell’universo e la poesia nelle cose che apparentemente non hanno vita, o che non ci sono come presenza materiale. La poesia nasce a causa di quello che egli stesso dice in “En vrac”, è in quello che ci manca, nei luoghi in cui noi vorremmo essere e noi non siamo.

Per quanto impressionante, questa nascita della poesia come esigenza colmante lo stato di insoddisfazione dell’essere, appare di un dinamismo psicologico pari alle rivoluzioni culturali giovanili dei nostri giorni. L’uomo, come tutti gli altri elementi dell’universo, racchiude in sé la poesia e riesce ad espletarla soltanto guardando altrettante situazioni riposte, non evidenti, da estrapolare al di là o tra le pieghe di una realtà materialistica.




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ANDERSEN Hans Christian - Recensione di Ettore Mosciàno






















“Il favoloso Hans Christian Andersen” di Ettore Mosciano.________________

Il quattro agosto 1875, all’età di settant’anni, moriva serenamente a Rolighed, in una villa nei dintorni di Copenaghen, il poeta e disegnatore H.C. Andersen.
Per commemorarne il centenario della scomparsa, un’ampia mostra antologica è stata realizzata in uno dei saloni della Biblioteca Nazionale di Roma con la collaborazione dell’assessorato alle Antichità e Belle Arti e dell’Ambasciata di Danimarca. Una cura particolare è stata riservata alla presentazione delle opere grafiche che costituiscono un patrimonio poetico-fantastico del mondo anderseniano pochissimo conosciuto in Italia.
Un richiamo, quindi, per tutti coloro che, nei ricordi d’infanzia, volessero ancora assaporare l’arte della purezza e della poesia; ma soprattutto un invito ai bambini perché possano ancora una volta trovare l’occasione per immergersi, attraverso la lettura e la ideazione fantastica, in quei mondi dove il senso di giustizia e di aperta verità, quell’intimo senso di pietà, quella bonaria ed inesauribile ironia, svelano ancora il lato comico della vita e le sue contraddizioni.
“Io non ho scritto per i bambini soltanto…- diceva l’Andersen - …ma anche per quel ‘fanciullino’ che vive ancora, grazie a Dio, nell’anima di tutti”.

Quanti ancora tra i genitori ed educatori sociali tengono a mente questo precetto?

In un’epoca in cui siamo tutti più soggetti alla problematica di un divenire, tanto più necessaria arriva la fantasia a colmare i vuoti e gli smarrimenti mentali. Il timore che le favole possano ingannare il bambino, popolandone la mente di elfi e di fate, è un luogo comune della filosofia materialistica. Anatole France mette in fuga questa apprensione ricordandoci che: “Egli (il bambino) sa benissimo che la vita non ha di tali gentili apparizioni. Nella nostra società, ahimé, fintroppo è la gente positiva che teme i danni dell’immaginazione”.

L’Andersen ancora ci affascina perché la sua arte ci arriva dai pochi mezzi a disposizione; tutti gli oggetti che si trovano in casa, infatti, sono usati dai personaggi delle sue fiabe in funzione del giuoco. Non è importante, quindi, un giocattolo specifico per “fare il giuoco” quanto qualsiasi oggetto facente-funzione a stimolare la fantasia del bambino.
Le innovazioni di questa nostra èra industrial-tecnologica hanno largamente influenzato, con deleteria fiera consumistica, anche l’industria del giocattolo; tant’è che le “nuove diavolerie meccanizzate”, strutturate fin nei minimi particolari, si cambiano oggi nella stanza dei balocchi con la stessa facilità dell’abito pret-a-porter; e questo significa, in parte, la morte dello stimolo alla fantasia con il quale ognuno di noi, fino a qualche decennio addietro, inconsciamente ma serenamente, riusciva dal nulla o dal poco a creare o a trasformare tutte le cose.

E qui, nella sala allestita presso la Biblioteca Nazionale, riusciamo per un po’, con l’aiuto dei personaggi delle favole, a ritrovare il rispetto verso tutti e verso le cose più umili, insieme alla gioia di sollevare le sofferenze degli altri ed alla virtù largamente benefica del sorriso fatta di immagini gentili. Solo così “il mondo nasce per ognun che nasce al mondo”, come insegnava il Pascoli.

Burattini, vestiti, leoni e cavalli con le ali, balocchi di mille strane forme recitavano drammi spettacolosi e tragedie terribili nella mente inquieta del piccolo Andersen. Egli animava e coloriva anche i più insignificanti particolari. Fino agli ultimi anni della sua vita, a Natale, la grande tavola del suo studio era coperta di fogli colorati, di stagnola, di boccette di gomma, d’aghi e di forbici; ed il vecchio glorioso s’affaccendava a fabbricare moschee colorate con minareti aguzzi, mulini a vento, ballerini e damigelle.

Egli, dai suoi poveri natali e dopo una vita di stenti, proprio come in una fiaba, fu accolto nelle più belle case di Copenaghen fino a diventare famoso nel mondo intero.

“Sono una strana creatura”, - scriveva alla madre nell’ottobre del 1826 – “se il vento soffia un po’ forte, subito gli occhi mi lacrimano. Eppure so benissimo che la vita non può già essere tutta serena come un bel giorno di maggio”.

Dai suoi viaggi all’estero, con l’appannaggio di una borsa di studio messa a sua disposizione dalla Reale Corte Danese, schizzi che conservava gelosamente per mostrarli solo ai più intimi amici. Molti di questi soggetti sono stati ispirati da paesaggi italiani molto amati dall’Andersen ed ampiamente descritti, a tinte e quadri vivaci, anche nel suo famoso romanzo “L’Improvvisatore”.

Tra le cose più belle che troviamo qui a Roma, vi è anche una copia in grandezza originale del paravento che l’Andersen decorò durante gli ultimi anni della sua vita. Su di esso, collegate e fuse insieme in otto sezioni, sono rappresentate, con estro poetico e surrealistico, figure della storia e dell’arte, sullo sfondo di paesaggi ed ambienti particolari, in una cornice da fiaba fantastica dove le immagini colorate e quelle in bianco e nero s’intrecciano a collage in un sogno senza fine.








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DALI' Salvador - Recensione di Ettore Mosciàno


















“Salvador Dalì: un Dioscuro alla corte di Shakespeare” di Ettore Mosciano.

(da "Presenze" anno III n.1- Quindicinale di attualità culturali - 15 gennaio 1978)

Le prime esperienze pittoriche di Dalì, studente a Madrid, recano le tracce della sua ammirazione per lo spazio dinamico futurista (1920). Successivamente attratto dai dipinti metafisici di De Chirico e di Carrà e dalla possibilità di creare nuovi spazi prospettici, per via dei volumi, con il Cubismo, egli finisce inevitabilmente per approdare al Surrealismo.
I “papiers collés” di Ricasso, il manifesto surrealista di Breton, le forme biomorfiche di Mirò e gli spazi immensi di Tanguy influenzano, quindi, buona parte del lavoro dei suoi anni maturi. Sono, questi, gli anni in cui si lega d’amicizia con Garcia Lorca e Luis Bunuel.
Nel 1934, sconfessato da Breton, Dalì abbandona il gruppo parigino surrealista poiché non ne condivide l’aspetto politico ed altre situazioni di comune lavoro. Il suo spirito caustico e violento non è soddisfatto dalla registrazione passiva del sogno e dello stato inconscio, provocati automaticamente, che sono elementi peculiari del Surrealismo.
Egli cerca, allora, un elemento attivo e critico per materializzare le immagini surreali che il suo cervello fotografa con una prospettiva esasperata; nasce, così, l’aspetto paranoico-reattivo che viene definito dallo stesso Dalì come “un metodo spontaneo di conoscenza irrazionale basato sull’associazione interpretativo-critca di fenomeni deliranti”.
La paranoia-critica daliniana, concretatasi in un carattere da megalomane, è una dichiarata e sistematica delusione di trovarsi nel mondo attuale; ed è per questa ragione che Dalì rende ossessivo il suo folle soggettivismo.
Il suo, quindi, è il desiderio di un uomo che irrompe nel mondo e ne erompe per cercare di costruirne uno diverso (un concetto tipicamente indicato nel quadro “Osservando la nascita dell’uomo nuovo” in cui, una madre, indica al proprio bimbo l’essere umano che sta sprigionandosi da un globo terrestre esploso).













Questa reazione alla realtà esteriore si presenta a sovvertire non tanto l’immagine oggettiva delle forme quanto il rapporto logico che tra esse intercorre, in nome di una realtà superiore galleggiante in un cosmo segreto, negato alla conquista razionale e recuperabile soltanto attraverso un processo del subconscio.
In buona parte delle sue opere, in special modo in quelle precedenti l’ultimo periodo, Dalì esalta ogni specie di originalità, di audacia, di estrema violenza. Il caos, l’amorfismo ed il caso marciano parallelamente alla creazione, alla forma ed alla necessità.
I valori pittorici tradizionali (forma, colore, misura, volume e posizione) lui li ricompone in una disposizione alogica, con conturbanti figurazioni assurde, libero da qualsiasi preoccupazione per la morale borghese.
L’espressione della sua realtà “superiore”, comunque, può essere identificata per mezzo del suggerimento dato allo spettatore di arrivare al senso sognante, paranoico, attraverso un viaggio interpretativo fra elementi che non sono né stlizzati né resi astratti, ma che appartengono ad una natura semplice, quella comune a tutti i mortali.

Questa manifestazione di libero sfogo acquista, però, nel caso di Dalì, valore d’arte e diventa realtà assoluta, surrealtà, combinazione cioè di due stati apparentemente contraddittori, il sogno e la vita delle abitudini concrete, proprio perché riesce ad individuare le basi di riferimento psichico scientificamente comuni a tutta l’umanità. La sintesi espressiva, quindi, diventa Arte perché ha valore universale.
Intorno al 1943, egli dichiara di non essere più interessato alla psicopatologia e di volere riavvicinare la cultura rinascimentale per riesprimere modernamente le interrelazioni uomo-natura sulle basi delle ultime scoperte della scienza. Da questo momento, infatti, i suoi dipinti recano la combinazione di soggetti religiosi e scientifici e comprovano un’accurata ricerca escatologica, come si può osservare ne “Il Cristo di S. Juan de la Cruz” del 1951, ne “La Cena” del 1955, ne “Il sogno di Cristobal Colon” del 1958-59, ecc., riscattando qualche negativa impressione data dalla sua pittura precedente: quella a sfondo macabro come “Lo spettro del sex-appeal” del 1934 e “Autoritratto con bacon asado” del 1941.

E’ inevitabile, come abbiamo visto, riscontare nel travaglio artistico di un autore, opere più o meno piacevoli; ma è sorprendente incontrare, nell’approdo della esperienza di questo artista, gli incanti metafisici della sua figurazione pittorica. E qui, mi si consenta un piccolo sfogo.
La critica ufficiale e i docenti delle Scuole d’Arte (che si scervellano e trovano, da veri certosini, i significati nei fili colorati e nelle macchie della cosiddetta Arte moderna, e che hanno valutato il Surrealismo e Dalì come fenomeni capricciosi da passare sotto gamba) dovranno ben presto rivedere le loro posizioni critiche nei confronti di un autore che, per evidenti tracce del suo primo periodo (“Piaceri illuminati” del 1929 e “Ricordi d’Africa” del 1938, ecc.), ci ha regalato significative espressioni di un misticismo critico di tipo rinascimentale tra le più esemplari ed interessanti della nostra epoca. E basta pensare al caos dell’epoca moderna per apprezzare nell’artista il valore profetico. Ma forse la critica ufficiale, convogliata a nozze con la classe marxista prossima dirigente, crede ancora di potere isolare certi artisti e certa Arte autorevolmente indipendenti, dimenticando che, comunque vadano le cose, i valori artistici saranno sempre recuperati per una storia delle culture e non della politica.
Per ultimo mi preme segnalare quanto lo spazio prospettico del Dalì sia ancora legato alle prime impressioni metafisiche di De Chirico e di Tanguy; con la differenza che mentre per De Chirico gli ambienti, gli sfondi e gli oggetti sono inquadrati in una prospettiva di architettura classica, con risultati di bellezza greco sofoclea per contemplazione apollinea, in Dalì le aree hanno i contorni di una natura in cui l’uomo, fattosi Dionisio, vive tutta la sua carica vitale per una bellezza eschileo-dinamica o d’epoca shakespeariana.
Il quadro “Dalì a sei anni che solleva la superficie dell’acqua per vedere un cane dormire all’ombra del mare”, ha la magia di un sogno attraverso il quale l’autore ci rende capaci di estrapolare una energia nascosta (si guardi il cane addormentato sotto la superficie del mare sollevata come un lembo di lenzuolo) per dimostrarci così che, in una natura morta di paesaggio marino con scogli, la vita c’è anche nelle cose che apparentemente vita non hanno. E questo significa, pittoricamente, anche estrapolare poesia.
L’universo popolato di orologi molli ed altri oggetti deformati da una semiliquefazione, come in “La persistenza della memoria” del 1931, è il risultato di un processo critico-artistico che vuole affermare il prevalere della memoria (ricordanza) sul tempo, con una operazione in cui l’intelletto umano rivalutato ai suoi più alti poteri fa dell’essere umano l’elemento più significativo dell’universo.

Il suo panteismo di cantore della vita, in “Leda atomica”, si ribella contro le autorità scientifiche per lo spreco delle materie prime usate nella produzione di energie nucleari e ci indica, criticamente, che a tutt’oggi l’essere-oggetto soggetto che dovrebbe occupare la nostra ricerca scientifica s’identifica ancora nella figura mitica di una donna (essere biologico) come tante altre: Leda, appunto; una Leda che ha ancora tutta la complessa struttura di un organismo biologico da studiare.

Amore per la vita, quindi, quella di Dalì. Un amore che si unisce alla bellezza metafisica specialmente nelle opere del suo ultimo periodo, come in “La pesca del tonno”. I piccoli pesci guizzanti dalle reti volano in alto, a confondersi con gli spruzzi variopinti dell’acqua del mare battuta dai pescatori durante la mattanza del tonno. Una lotta tra predatori e predati nello sfavillio di colori dei visi, dei pesci e delle braccia, con tuttas l’esultanza materiale e spirituale dell’artista; ed è quanto basta per rivolgere ad un Maestro tutta la nostra ammirazione.

“La bellezza serà commestibile o no serà”, una frase dello stesso Dalì, non ha più il valore di un fonema astratto ma è divenuto, in questo caso, un atto concreto.





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Saturday, March 04, 2006

"IMPATTO ZERO" - "LIFE GATE"
Progetto italiano di ripristino ambientale per compensare le proprie emissioni di CO2. Un metodo elaborato dal Politecnico di Torino, dal Politecnico di Losanna e dall'Università di Padova, permette di calcolare i chili di anidride carbonica immessi nell'atmosfera, e quindi di ricompensare l'ambiente piantando la quantità di alberi a riassorbirli. E' il primo progetto che mette in pratica gli intenti del protocollo di Kyoto. Ideato da LifeGate.





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